Cass., sez. II, ord. 4 aprile 2024, n. 8946
Una società, deducendo di aver espletato prestazioni di servizio a beneficio di un Ateneo e facendo leva sul contratto all’uopo concluso inter partes, otteneva la condanna dell’ente in via monitoria. Sennonché nel giudizio di opposizione si approdava alla revoca del decreto ingiuntivo; la sentenza di prime cure veniva confermata in appello. La corte territoriale si basava innanzitutto sulla constatazione che il contratto de quo era stato stipulato da un soggetto privo dei necessari poteri rappresentavi, per poi escludere l’invocabilità dell’apparenza del diritto, in assenza della buona fede in capo alla società opposta, come pure l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento vuoi perché stata rigettata l’azione contrattuale proposta in via principale, vuoi perché non era ravvisabile il riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte dell’amministrazione universitaria. Tale decisione veniva cassata dal Supremo collegio che, oltre a non annoverare il riconoscimento dell’utilità tra i requisiti di detta azione, evidenziava come la proponibilità della stessa, in relazione al requisito di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., postula semplicemente che non sia prevista nell’ordinamento giuridico altra azione tipica a tutela di chi lamenti il depauperamento, ovvero che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine dell’azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento, ipotesi quest’ultima cui andava ricondotto il caso di un contratto concluso da un ente pubblico e ritenuto invalido per difetto di previa delibera autorizzativa alla stipula (così Cass. 31 gennaio 2017, n. 2350, Foro it., Rep. 2017, voce Arricchimento senza causa, n. 14).
La Corte d’appello dinanzi alla quale le parti erano state rimesse, condannava l’Ateneo al pagamento di una somma sensibilmente inferiore rispetto a quella pretesa dalla controparte, essendo dell’avviso che la perdita patrimoniale da essa dimostrata ammontava semplicemente alle spese vive sostenute. Non soddisfatta di tale verdetto, la società che aveva agito in sede monitoria proponeva ricorso per cassazione, denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo. Questo vizio, nell’ottica della ricorrente, discendeva dalla circostanza che essa, sin dal primo grado di giudizio, aveva fatto istanza affinché, “nell’ipotesi in cui l’arricchimento senza causa non fosse stato giudicato pari all’importo delle fatture emesse e non pagate”, si addivenisse “alla valutazione di giustizia in via equitativa”; e – sempre a dire della ricorrente – il giudice del rinvio disponeva di tutti gli elementi (segnatamente, “le fatture prodotte nonché i capitoli di prova formulati”) utili a procedere alla liquidazione ex art. 1226 c.c., ma non ne aveva tratto alcuna conseguenza.
La seconda sezione civile ha disatteso le richiamate censure, avallando il ragionamento della sentenza impugnata, secondo cui, a fronte dell’onere gravante sulla parte depauperata di provare quali fossero le specifiche prestazioni professionali ancora non pagate, la società ricorrente aveva operato un generico e indistinto riferimento a tutto il complessivo rapporto (cui afferivano prestazioni già pagate) senza indicazioni più puntali e, dunque, non aveva assolto al predetto onere se non nei limiti delle spese vive basate su supporti documentali; nemmeno i capitoli di prova dalla medesima articolati consentivano di individuare le attività professionali a cui si riferivano le fatture asseritamente non onorate. Aggiunge la Cassazione che quanto statuito dalla Corte d’appello dopo il primo intervento dei giudici della legittimità, investendo una questione “a valle” dell’art. 2041 c.c. (e cioè il problema di prova del depauperamento e del relativo arricchimento), non potrebbe in alcun modo risentire di eventuali ricadute della recente pronuncia resa dalle sezioni unite in materia di arricchimento senza causa, nella quale viene invece in rilievo il profilo della sussidiarietà dell’azione (cfr. Cass. 5 dicembre 2023 n. 33954, Foro it., 2024, I, 120, con note di G. Fabbrizzi, Brevi note su arricchimento, risarcimento, sussidiarietà e tutela giurisdizionale; S. Di Paola – R. Pardolesi, Sulle pene sempiterne dell’ingiustificato arricchimento: sussidiarietà in cerca d’autore; S. Pagliantini, La sussidiarietà dell’azione di ingiustificato arricchimento: e se fosse (anche) un problema di lacuna?; A. Albanese, L’impoverimento dell’arricchimento senza causa; F. Macario, L’azione di arricchimento senza causa tra sussidiarietà e generalità; ivi si è affermato il seguente principio di diritto: «Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subìto, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico»).