Corte costituzionale, sent., 13 ottobre 2022 n. 209
Con ordinanza del 22 novembre 2021 la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli art. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, 2° comma, quinto periodo, d.l. n. 201 del 2011, convertito nella l. n. 214 del 2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lett. b), l. n. 147 del 2013, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (Imu) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.
Ad avviso del giudice rimettente, la norma violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento «fondata su un neutro dato geografico […] a parità di situazione sostanziale» tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.
Essa inoltre lederebbe: la «parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare» (art. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il «diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto» (art. 3, 29 e 31 Cost.); i principî di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’«aspettativa rispetto alla provvidenze per la formazione della famiglia e [l’]adempimento dei compiti relativi» (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).
Nel corso del citato giudizio, questa corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022 (Foro it., 2022, I, 1896), iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé le questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, 2° comma, d.l. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli art. 3, 31 e 53, 1° comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare. Ciò nel presupposto che le questioni sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli sono «strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale» stabilita appunto dal censurato quarto periodo.
Segnatamente, la norma censurata, facendo venire meno la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale «al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti», irragionevolmente ne discriminerebbe il trattamento rispetto non solo alle persone singole, ma anche alle coppie di mero fatto.
Il citato art. 13, 2° comma, quarto periodo, lederebbe, infine, l’art. 31 Cost., in quanto non agevolerebbe «con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi», ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.
Tutto fondato.
Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile.
Tale è invece proprio l’effetto prodotto dal censurato quarto periodo dell’art. 13, 2° comma, perché, in conseguenza del riferimento al nucleo familiare ivi contenuto, sino a che non avviene la costituzione di tale nucleo, la norma consente a ciascun possessore di immobile che vi risieda anagraficamente e dimori abitualmente, di fruire pacificamente dell’esenzione Imu sull’abitazione principale, anche se unito in una convivenza di fatto: i partner in tal caso avranno diritto a una doppia esenzione, perché ciascuno di questi potrà considerare il rispettivo immobile come abitazione familiare.
La scelta di accettare che il proprio rapporto affettivo sia regolato dalla disciplina legale del matrimonio o dell’unione civile determina, invece, l’effetto di precludere la possibilità di mantenere la doppia esenzione anche quando effettive esigenze, come possono essere in particolare quelle lavorative, impongano la scelta di residenze anagrafiche e dimore abituali differenti.
Soprattutto, poi, nel diritto vivente, il suddetto riferimento al nucleo familiare è interpretato nel senso di precludere addirittura ogni esenzione ai coniugi che abbiano stabilito la residenza anagrafica in due abitazioni site in comuni diversi; secondo questa interpretazione, in tal caso, infatti, nessuno dei loro immobili potrà essere considerato abitazione principale e beneficiare dell’esenzione.
Per comprendere come si sia giunti a tale esito, criticato in dottrina, è opportuno ricostruire l’evoluzione del quadro normativo che ha caratterizzato il beneficio in questione (che, nelle varie fasi della sua esistenza giuridica, ha assunto anche il carattere di semplice agevolazione, oltre quello, più recente, di completa esenzione dall’Imu).
Il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina dell’Imu (istituita dall’art. 8 d.leg. 14 marzo 2011 n. 23, recante «disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale»), che subordinava il riconoscimento dell’esenzione per l’abitazione principale alla sussistenza del solo requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale del possessore dell’immobile: a questo veniva riconosciuto il diritto all’esenzione in termini oggettivi, del tutto a prescindere dal suo status soggettivo di coniugato. Ciò che rilevava, ai fini della identificazione della abitazione principale, era, infatti, che egli si trovasse a risiedere e dimorare abitualmente in un determinato immobile.
Il riferimento al nucleo familiare nemmeno figurava nella successiva formulazione, con la quale «è stata disposta l’anticipazione dell’introduzione dell’Imu al 2012» (sentenza n. 262 del 2020, id., 2021, I, 1), ovvero l’art. 13, 2° comma, d.l. n. 201 del 2011, come convertito, dove l’agevolazione — consistente non più in un’esenzione, ma in una riduzione dell’aliquota — era riconosciuta, anche in questo caso, per l’immobile nel quale «il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente».
Pertanto, sino a quel momento, se due persone unite in matrimonio avevano residenze e dimore abituali differenti, a ciascuna spettava l’agevolazione per l’abitazione principale.
Solo con l’art. 4, 5° comma, lett. a), d.l. 2 marzo 2012 n. 16 (disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella l. 26 aprile 2012 n. 44, che è intervenuto su diversi aspetti della disciplina dell’Imu, è stata modificata la definizione di abitazione principale, introducendo, in particolare, il riferimento al nucleo familiare ai fini di individuare l’immobile destinatario dell’agevolazione.
Segnatamente, il 2° comma dell’art. 13 d.l. n. 201 del 2011, come convertito, è stato così modificato e integrato: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile».
Tale disciplina è stata poi confermata dalla legge n. 147 del 2013, che ha reintrodotto la completa esenzione dell’abitazione principale dal 1° gennaio 2014 per tutte le categorie catastali abitative, tranne quelle c.d. di lusso (A/1, A/8 e A/9), ed è stata quindi ribadita nel comma 741, lett. b), dell’art. 1 l. 27 dicembre 2019 n. 160 (bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022) all’interno della disciplina della c.d. «nuova Imu», divenuta sostanzialmente comprensiva anche del tributo sui servizi indivisibili (Tasi).
La nuova formulazione introdotta con il d.l. n. 16 del 2012, come convertito, è stata interpretata in senso vieppiù restrittivo dalla giurisprudenza di legittimità, applicando il criterio «di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte, in tema di Ici, più di recente, cfr. Cass. 11 ottobre 2017, n. 23833, id., Rep. 2017, voce Tributi locali, n. 134; ord. 3 febbraio 2017, n. 3011, ibid., n. 135), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 20 novembre 2017, n. 242, id., 2018, I, 45)» (Cass., ord. 24 settembre 2020, n. 20130, id., Rep. 2020, voce cit., n. 154).
La Corte di cassazione, infatti, in una prima fase, disattendendo una diversa interpretazione inizialmente proposta dal ministero dell’economia e delle finanze con la circolare n. 3/DF del 2012 (diretta a riconoscere, nel silenzio della norma, il beneficio per ciascuno degli immobili, ubicati in comuni diversi, adibiti a residenza e dimora), ha ritenuto che l’agevolazione spettasse per un solo immobile per nucleo familiare, non solo nel caso di immobili siti nel medesimo comune, come del resto espressamente recita il suddetto 2° comma dell’art. 13, ma anche in caso di immobili situati in comuni diversi (situazione non espressamente regolata dalla disposizione in oggetto); ciò a meno che non fosse fornita la prova della rottura dell’unità familiare. Infatti, solo «la frattura» del rapporto di convivenza comporta «una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, l’abitazione principale non potrà essere più identificata con la casa coniugale (v., da ultimo, Cass. 15439/19, id., Rep. 2019, voce cit., n. 121)» (Cass., ord. n. 17408 del 2021, ForoPlus).
La giurisprudenza di legittimità ha poi compiuto un ulteriore passaggio ed è giunta a negare ogni agevolazione ai coniugi che risiedono in comuni diversi, facendo leva sulla necessità della coabitazione abituale dell’intero nucleo familiare nel luogo di residenza anagrafica della casa coniugale (Cass., ord. 19 febbraio 2020, n. 4170, ibid., e n. 4166 del 2020, id., Rep. 2020, voce cit., n. 155, poi confermate dall’ordinanza n. 17408 del 2021, cit.). Dunque, «nel caso in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed autonoma rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della ‘abitazione principale’ del suo nucleo familiare» (Cass., ord. 17 gennaio 2022, n. 1199, ForoPlus).
In altri termini, si è ritenuto che per fruire del beneficio in riferimento a una determinata unità immobiliare sia necessario che «tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare non solo vi dimorino stabilmente, ma vi risiedano anche anagraficamente» (Cass., ord. n. 4166 del 2020, cit.; ribadita in ordinanze n. 17408 del 2021 e n. 4170 del 2020, citate): l’esenzione è stata quindi subordinata alla contestuale residenza e dimora unitaria del contribuente e del suo nucleo familiare.
Il diritto vivente è pertanto giunto alla conclusione, prima anticipata, di negarne ogni riconoscimento nel caso contrario, «in cui i componenti del nucleo familiare hanno stabilito la residenza in due distinti comuni perché quello che consente di usufruire del beneficio fiscale è la sussistenza del doppio requisito della comunanza della residenza e della dimora abituale di tutto il nucleo familiare nell’immobile per il quale si chiede l’agevolazione» (Cass., ord. 25 novembre 2021, n. 36676, ibid.).
È in reazione a tale approdo della giurisprudenza di legittimità, giunto quindi a negare ogni esenzione sull’abitazione principale se un componente del nucleo familiare risiede in un comune diverso da quello del possessore dell’immobile, che il legislatore è intervenuto con l’art. 5 decies, 1° comma, d.l. 21 ottobre 2021 n. 146 (misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella l. 17 dicembre 2021 n. 215. La relazione illustrativa all’emendamento governativo che ha introdotto tale disposizione espressamente precisa, infatti, l’intenzione di superare gli ultimi orientamenti della Corte di cassazione (sono citate le ordinanze della Corte di cassazione n. 4170 e n. 4166 del 2020, citate).
L’art. 1, comma 741, lett. b), l. n. 160 del 2019 è stato pertanto integrato prevedendo che: «[n]el caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare».
La ricostruzione dell’evoluzione normativa mette in evidenza, in sintesi, come si sia realizzato, nella struttura della misura fiscale in oggetto, il passaggio dalla considerazione di una situazione meramente oggettiva (la residenza e la dimora abituale del possessore dell’immobile, prescindendo dalla circostanza che si trattasse di soggetti singoli, coabitanti, coniugati o uniti civilmente) al rilievo dato a un elemento soggettivo (la relazione del possessore dell’immobile con il proprio nucleo familiare).
La descrizione dello sviluppo giurisprudenziale ha poi evidenziato come l’introduzione di questo elemento soggettivo si sia risolta, infine, nell’esito di una radicale penalizzazione dei possessori di immobili che hanno costituito un nucleo familiare, i quali, se residenti in comuni diversi, si sono visti escludere dal regime agevolativo entrambi gli immobili che invece sarebbero stati candidati a fruirne con l’originaria formulazione prevista nel d.leg. n. 23 del 2011.
A tale esito il diritto vivente sembra essere pervenuto per un duplice motivo.
Da un lato, l’assenza, nella disciplina dell’Imu, di una specifica definizione di «nucleo familiare», a fronte di diversi riferimenti presenti — a vario titolo e oltre quelli civilistici — nell’ordinamento. Si pensi, ad esempio, a quello stabilito ai fini dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) dall’art. 3 d.p.c.m. 5 dicembre 2013 n. 159, recante «regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee)», oppure a quello, stabilito però esclusivamente con riguardo all’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), dall’art. 5, 5° comma, d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917 (approvazione del t.u. delle imposte sui redditi). Dall’altro, la dichiarata esigenza di interpretare restrittivamente le agevolazioni tributarie; esigenza che peraltro non appare contestabile in riferimento a un’agevolazione del tipo di quella in esame (v., al riguardo, il punto successivo).
Ciò che, nell’insieme, conferma come l’effettiva origine dei problemi applicativi determinati dagli approdi del diritto vivente si ponga, in realtà, a monte, ovvero nel censurato quarto periodo del 2° comma dell’art. 13 d.l. n. 201 del 2011, come convertito, che ha introdotto nella fattispecie generale dell’agevolazione il riferimento al nucleo familiare, piuttosto che nel quinto periodo del medesimo comma censurato dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, che ne disciplina, invece, solo una specifica ipotesi.
È per tale motivo che questa corte ha ritenuto, dato il «rapporto di presupposizione» tra le questioni (ordinanza n. 94 del 2022, cit.), di sollevare dinanzi a sé stessa quella sulla disciplina, appunto, a monte.
Ciò precisato, è fondata la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost.
Va, in primo luogo, chiarito che l’agevolazione in oggetto non rientra tra quelle strutturali, essendo senza dubbio inquadrabile tra quelle in senso proprio (sentenza n. 120 del 2020, id., 2021, I, 1197). Inoltre, se, da un lato, essa si può ritenere rivolta a perseguire la finalità di favorire «l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione» (art. 47, 2 ° comma, Cost.), dall’altro esenta le abitazioni principali dei residenti dalla più importante imposta municipale (l’Imu), determinando un effetto poco lineare rispetto ai principî che giustificano l’autonomia fiscale locale: se gran parte dei residenti è esentata dall’imposta, questa finirà per risultare a carico di chi non vota nel comune che stabilisce l’imposta.
In difetto di una chiara causa costituzionale l’esenzione in oggetto è pertanto riconducibile a una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore; ciò che evoca per costante giurisprudenza un sindacato particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio (sentenza n. 120 del 2020, cit.).
Nella questione che questa corte si è autorimessa, tuttavia, viene direttamente in rilievo il contrasto della norma censurata con i principî costituzionali di cui agli art. 3, 31 e 53 Cost. e solo indirettamente il tema dell’estensione di un’agevolazione a soggetti esclusi.
In altri termini, nonostante una eadem ratio sia comunque identificabile nelle varie situazioni in comparazione — perché se la logica dell’esenzione dall’Imu è quella di riferire il beneficio fiscale all’abitazione in cui il possessore dell’immobile ha stabilito la residenza e la dimora abituale, dovrebbe risultare irrilevante, al realizzarsi di quella duplice condizione, il suo essere coniugato, separato o divorziato, componente di una unione civile, convivente o singolo —, la questione non è direttamente rivolta a estendere l’esenzione, quanto piuttosto a rimuovere degli elementi di contrasto con i suddetti principî costituzionali quando tali status in sostanza vengono, attraverso il riferimento al nucleo familiare, invece assunti per negare il diritto al beneficio.
In un contesto come quello attuale, infatti, caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale.
In tal caso, ai fini del riconoscimento dell’esenzione dell’abitazione principale, non ritenere sufficiente la residenza e — si noti bene — la dimora abituale in un determinato immobile (cioè un dato facilmente accertabile, come si preciserà di seguito, attraverso i dovuti controlli) determina una evidente discriminazione rispetto a chi, in quanto singolo o convivente di fatto, si vede riconosciuto il suddetto beneficio al semplice sussistere del doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale nell’immobile di cui sia possessore.
Non vi è ragionevole motivo per discriminare tali situazioni: non può, infatti, essere evocato l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 c.c., dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte (ex plurimis, Cass., ord. 28 gennaio 2021, n. 1785). Né a tale possibilità si oppongono le norme sulla «residenza familiare» dei coniugi (art. 144 c.c.) o «comune» degli uniti civilmente (art. 1, 12 ° comma, l. 20 maggio 2016 n. 76, recante «regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»).
Inoltre, il 2° comma dell’art. 45 c.c., contemplando l’ipotesi di residenze disgiunte, conferma la possibilità per i genitori di avere una propria residenza personale.
Nella norma censurata, invece, attraverso il riferimento al nucleo familiare, tale ipotesi finisce per determinare il venir meno del beneficio, deteriorando così, in senso discriminatorio, la logica che consente al singolo o ai conviventi di fatto di godere pro capite delle esenzioni per i rispettivi immobili dove si realizza il requisito della dimora e della residenza abituale.
D’altra parte, a difesa della struttura della norma censurata nemmeno può essere invocata una giustificazione in termini antielusivi, motivata sul rischio che le c.d. seconde case vengano iscritte come abitazioni principali.
In disparte che tale rischio esiste anche per i conviventi di fatto, va precisato che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, tra cui, in base a quanto previsto dall’art. 2, 10° comma, lett. c), punto 2, d.leg. n. 23 del 2011, anche l’accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio; elementi dai quali si può riscontrare l’esistenza o meno di una dimora abituale.
In conclusione, la norma censurata, disciplinando situazioni omogenee «in modo ingiustificatamente diverso» (ex plurimis, sentenza n. 165 del 2020, ibid., 402), si dimostra quindi in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale.
Altresì fondata è la censura riferita all’art. 31 Cost.
Va premesso che, come hanno rilevato numerosi studi dottrinali, il sistema fiscale italiano si dimostra avaro nel sostegno alle famiglie. E, ciò nonostante, la generosità con cui la Costituzione italiana ne riconosce il valore, come leva in grado di accompagnare lo sviluppo sociale, economico e civile, dedicando ben tre disposizioni a tutela della famiglia, con un’attenzione che raramente si ritrova in altri ordinamenti.
In tale contesto l’art. 31 Cost. statuisce: «[l]a Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose».
In questo modo tale norma suggerisce ma non impone trattamenti, anche fiscali, a favore della famiglia; li giustifica, quindi, ove introdotti dal legilatore; senz’altro si oppone, in ogni caso, a quelli che si risolvono in una penalizzazione della famiglia.
Di qui la violazione anche dell’art. 31 Cost. da parte della norma censurata in quanto ricollega l’abitazione principale alla contestuale residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare, secondo una logica che, come si è visto, ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione Imu (o alla doppia esenzione) solo in caso di «frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi» e conseguente «disgregazione del nucleo familiare».
Fondata, infine, è anche la censura relativa all’art. 53 Cost.
Avendo come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di altro diritto reale in relazione a beni immobili, l’Imu riveste la natura di imposta reale e non ricade nell’ambito delle imposte di tipo personale, quali quelle sul reddito.
Appare pertanto con ciò coerente il fatto che nella sua articolazione normativa rilevino elementi come la natura, la destinazione o lo stato dell’immobile, ma non le relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente.
Ciò salvo, in via di eccezione, una ragionevole giustificazione, che nel caso però non sussiste: qualora, infatti, l’organizzazione della convivenza imponga ai coniugi o ai componenti di una unione civile l’effettiva dimora abituale e residenza anagrafica in due immobili distinti, viene ovviamente meno la maggiore economia di scala che la residenza comune potrebbe determinare, ovvero la convivenza in un unico immobile, fattispecie che per tabulas nel caso in considerazione non si verifica.
Sotto tale profilo, le ragioni che spingono ad accogliere la censura formulata in relazione all’art. 53 Cost. rafforzano l’illegittimità costituzionale in riferimento anche all’art. 3 Cost.; infatti «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione» (sentenza n. 10 del 2015, id., 2015, I, 1502).
Conclusivamente deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale del quarto periodo del 2° comma dell’art. 13 d.l. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dalla l. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente».
L’illegittimità costituzionale del censurato quarto periodo del 2° comma dell’art. 13, nei termini descritti, determina, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 l. 11 marzo 1953 n. 87 (norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quella di ulteriori norme.
Innanzitutto comporta l’illegittimità costituzionale consequenziale del quinto periodo del medesimo 2° comma dell’art. 13 d.l. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, che stabilisce: «[n]el caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile».
Tale disposizione, infatti, risulta incompatibile con la ratio della decisione di questa corte sul quarto periodo del medesimo 2° comma, poiché lascerebbe in essere le descritte violazioni costituzionali all’interno dello stesso comune, dove, in caso di residenze e dimore abituali disgiunte, una coppia di fatto godrebbe di un doppio beneficio, che risulterebbe invece precluso, senza apprezzabile motivo, a quella unita in matrimonio o unione civile.
È ben vero che la necessità di residenza disgiunta all’interno del medesimo comune rappresenta una ipotesi del tutto eccezionale (e che come tale dovrà essere oggetto di accurati e specifici controlli da parte delle amministrazioni comunali), ma, da un lato, date sia le grandi dimensioni di alcuni comuni italiani, sia la complessità delle situazioni della vita, essa non può essere esclusa a priori; dall’altro, mantenere in vita la norma determinerebbe un accesso al beneficio del tutto casuale, in ipotesi favorendo i nuclei familiari che magari per poche decine di metri hanno stabilito una residenza al di fuori del confine comunale e discriminando quelli che invece l’hanno stabilita all’interno dello stesso.
L’illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata anche con riguardo alla lett. b) del comma 741 dell’art. 1 l. n. 160 del 2019, dove, in relazione alla c.d. «nuova Imu», è stato identicamente ribadito che «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile».
Con riferimento al primo periodo di tale disposizione la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata nella parte in cui stabilisce: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente».
Con riferimento al secondo periodo essa investe, invece, l’intera disposizione.
Deve, infine, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale anche dell’ultima formulazione del medesimo comma 741, lett. b), secondo periodo, all’esito delle modifiche apportate con l’art. 5 decies, 1° comma, d.l. n. 146 del 2021, come convertito, che dispone: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare».
Rispetto a tale disciplina risultano replicabili le motivazioni, sopra esposte, che hanno condotto all’accoglimento delle questioni che questa corte si è autorimessa.
Infatti, consentendo alla scelta dei contribuenti l’individuazione dell’unico immobile da esentare, la novella disancora, ancora una volta, la spettanza del beneficio dall’effettività del luogo di dimora abituale, negando così una doppia esenzione per ciascuno degli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile abbiano avuto l’esigenza, in forza delle necessità della vita, di stabilirla, assieme, ovviamente, alla residenza anagrafica.
Da ultimo questa corte ritiene opportuno chiarire che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale ora pronunciate valgono a rimuovere i vulnera agli art. 3, 31 e 53 Cost. imputabili all’attuale disciplina dell’esenzione Imu con riguardo alle abitazioni principali, ma non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le c.d. «seconde case» delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale), l’esenzione spetta una sola volta.
Da questo punto di vista il venir meno di automatismi, ritenuti incompatibili con i suddetti parametri, responsabilizza i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli al riguardo; controlli che, come si è visto, la legilazione vigente consente in termini senz’altro efficaci.
L’accoglimento delle questioni riferite al quarto periodo dell’art. 13, 2° comma, d.l. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, e la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale del successivo quinto periodo del medesimo comma, determinano l’inammissibilità per sopravvenuta carenza di oggetto delle questioni sollevate con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 3 del 2022 dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli (ex multis, ordinanze n. 102 del 2022; n. 206 e n. 93 del 2021, la seconda id., Rep. 2021, voce Lavoro (rapporto), n. 1479; n. 125 e n. 105 del 2020, la prima id., Rep. 2020, voce Circolazione stradale, n. 105; n. 71 del 2017, id., Rep. 2017, voce Professioni intellettuali, n. 80).
Per questi motivi, la Corte costituzionale, riuniti i giudizi:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, 2° comma, quarto periodo, d.l. 6 dicembre 2011 n. 201 (disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella l. 22 dicembre 2011 n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lett. b), l. 27 dicembre 2013 n. 147, recante «disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», nella parte in cui stabilisce: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 l. 11 marzo 1953 n. 87 (norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, 2° comma, quinto periodo, d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lett. b), l. n. 147 del 2013;
3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 l. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lett. b), primo periodo, l. 27 dicembre 2019 n. 160 (bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), nella parte in cui stabilisce: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;
4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 l. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lett. b), secondo periodo, l. n. 160 del 2019;
5) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 l. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lett. b), secondo periodo, l. n. 160 del 2019, come successivamente modificato dall’art. 5 decies, 1° comma, d.l. 21 ottobre 2021 n. 146 (misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella l. 17 dicembre 2021 n. 215;
6) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, 2° comma, quinto periodo, d.l. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lett. b), l. n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli art. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con l’ordinanza in epigrafe.