La violenza nel matrimonio è causa dell’addebito della separazione, salvo che tali comportamenti contrari ai doveri del matrimonio siano stati assunti in modo non consapevole, così come quando il coniuge istante abbia sostenuto in giudizio che trattasi di agiti non voluti effettivamente da chi li ha posti in essere.

La sentenza in epigrafe si segnala all’attenzione perché, con essa, per la prima volta viene riconosciuto il reato di tortura di cui all’art. 613-bis, primo comma, c.p., in concorso con i reati di violenza sessuale e maltrattamenti, in relazione ad una travagliata vicenda sentimentale.

Più precisamente, il ricorrente maltrattava la fidanzata (con lui convivente) con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale  sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento sì da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la vita di coppia; la costringeva a subire e compiere atti sessuali  (ai quali costei non riusciva ad opporsi a causa delle continue e reiterate violenze subite, della forza fisica dell’imputato e del timore di possibili ritorsioni per sé e per i figli)

In dottrina, infatti, nel la locuzione “privato della libertà personale” accoglie l’obbligo costituzionale di incriminazione sancito dall’art. 13 comma 4   “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.

Inoltre, un marito che costringe la propria moglie ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà è punibile per il reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis del Codice penale. Per quanto concerne la “prova” di quanto avvenuto, la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza 16608/2017 ha ricordato che può essere sufficiente la sola dichiarazione della donna, dopo che il giudice ne abbia intuibilmente vagliato l’attendibilità.