La monetizzazione delle Ferie

La monetizzazione delle Ferie

I. – Il nodo della “monetizzazione” delle ferie per i lavoratori del pubblico impiego è infine venuto al pettine e ancora una volta è stata la Corte di giustizia Ue a mettere a nudo le contraddizioni del diritto italiano.

II. – L’art. 5, comma 8, d.l. 6 luglio 2012 n. 95, conv., con modif., dalla l. n. 135 del 2012, impone ai dipendenti pubblici di fruire delle ferie secondo le discipline dei rispettivi ordinamenti, senza possibilità che il loro mancato godimento, a qualunque causa sia dovuto, possa essere compensato in denaro (a sua volta, l’art. 1, comma 56, l. 24 dicembre 2012 n. 228, ne esclude la derogabilità da parte dei contratti collettivi).

Si tratta di una disposizione in forte odore di contrasto con l’art. 36, comma 3, Cost., poiché sembra negare l’assolutezza del diritto alle ferie e di fatto introdurre un’ipotesi di rinunciabilità da parte del lavoratore pubblico alla compensazione del pregiudizio derivante dalla loro mancata fruizione.

III. – Questa rigidità è stata però temperata dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità, attraverso una distinzione interpretativa, che ha sinora salvato la norma in questione dalla declaratoria di incostituzionalità (Corte cost. 6 maggio 2016, n. 95, Foro it., 2016, I, 2678; Cass. 11 luglio 2023, n. 19659, id., 2023, I, 2092; 20 giugno 2023, n. 17643, ForoPlus; 8 luglio 2022, n. 21780, ibid.; 6 giugno 2022, n. 18140, Foro it., 2022, I, 2368; 5 maggio 2022, n. 14268, id., Rep. 2022, voce Istruzione pubblica, n. 106; 2 luglio 2020, n. 13612, ForoPlus. In dottrina v. L. Di Salvatore, L’indennità sostitutiva per ferie non godute tra giurisprudenza europea e nazionale, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2022, 4, II; G. Ricci, L’orario di lavoro, i riposi e le ferie nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Foro it., 2014, I, 2701).

Due sono gli argini: i dipendenti pubblici hanno pieno diritto alla monetizzazione delle ferie non godute, salvo che il datore di lavoro dimostri di averli inutilmente invitati a goderne, con espresso, accurato e tempestivo avviso della perdita, altrimenti, del diritto alle ferie ed alla indennità sostitutiva; anche tale condizione è destinata però a non operare in danno dei lavoratori incolpevoli, ossia dei lavoratori che, pur informati, non abbiano potuto raccogliere l’invito datoriale per ragioni indipendenti dalla loro volontà.

Pertanto, il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie, anche nella vigenza dell’art. 5, comma 8, d.l. n. 95 del 2012, va riconosciuto alla lavoratrice che sia stata nell’impossibilità di fruirne essendo in astensione obbligatoria per maternità sino alla risoluzione del rapporto di lavoro, restando irrilevante che il rapporto di lavoro sia cessato per dimissioni ove queste vengano rese all’esito del periodo di astensione obbligatoria, dovendosi dare rilievo prioritario, sia sul piano del bilanciamento degli interessi che di quello cronologico, all’impossibilità di fruirne sino alle dimissioni. (Cass. 15 giugno 2022, n. 19330, id., Rep. 2022, voce Lavoro (rapporto), n. 730).

In generale, però, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l’interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore (Cass. 30 luglio 2018, n. 20091, id., Rep. 2018, voce Impiegato dello Stato, n. 214).

IV. – Su questa lettura incombeva la Corte di giustizia, la cui giurisprudenza era bensì tenuta presente dai giudici nazionali, che evidentemente però non ne traevano tutte le implicazioni.

Forse si pensava cioè che la scure di Lussemburgo potesse colpire solo discipline nazionali più rigide di quella italiana, che cioè escludessero il diritto all’indennità sostitutiva anche in caso di mancata fruizione involontaria, come nel caso della malattia (si vedano Corte giust. 27 aprile 2023, causa C-192/22, id., 2023, IV, 206, e ivi altri riferimenti alla giurisprudenza sull’art. 7 della direttiva n. 2003/88/Ce; 6 novembre 2018, causa C-684/16, Max Planck, id., 2019, IV, 33; 20 luglio 2016, causa C-341/15, id., Rep. 2016, voce Unione europea, n. 1956) o nell’ipotesi di morte del lavoratore e mancato riconoscimento agli eredi del diritto a percepire un’indennità parametrata alle ferie non godute (Corte giust. 6 novembre 2018, cause riunite C-569 e C-570/16, Stadt Wuppertal, id., 2019, IV, 34) o ancora in caso di carente informazione datoriale (Corte giust. 6 novembre 2018, causa C-619/16, Kreuziger, id., Rep. 2018, voce cit., n. 1707).

O forse si riteneva che le vere lacune dell’ordinamento italiano riguardassero il computo delle ferie ai fini dell’indennità di licenziamento (su cui v. da ultimo Corte giust. 12 ottobre 2023, causa C-57/22, Ředitelství silnic a dálnic ČR, in ForoPlus) e fossero state colmate attraverso la sequenza che va da Corte giust. 25 giugno 2020, cause riunite C-762/18 e C-37/19, QH e CV, in Foro it., 2020, IV, 403, a Cass. 8 marzo 2021, n. 6319, id., Rep. 2021, voce Lavoro (rapporto), n. 1503, su cui anche il commento in ForoNews, 15 marzo 2021).

La sentenza odierna smentisce questa speranza, come era peraltro prevedibile già sulla base di Corte giust. 25 novembre 2021, causa C‐233/20, Job-medium, in ForoPlus, e, ancor prima, 20 luglio 2016, causa C‑341/15, Maschek, ibid.: il motivo della cessazione del rapporto di lavoro non è rilevante ai fini del diritto all’indennità finanziaria.

Pertanto, una normativa nazionale come quella del d.l. n. 95 del 2012, anche come interpretata dalla Corte costituzionale, che introduce una condizione ulteriore rispetto a quelle espressamente previste dal all’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, si pone in contrasto con tale ultima disposizione e con l’art. 31 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.

V. – Si apre a questo punto una difficile alternativa per i giudici italiani.

Da un lato, potrebbe ritenersi che un’interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto Ue, come a sua volta illuminato dalla Corte di giustizia, si imponga al giudice comune nazionale, anche in assenza di efficacia diretta.

È noto però che l’obbligo di interpretazione conforme è recessivo quando esso si risolva in un’interpretazione contra legem del diritto nazionale; in tal caso, anche la Corte di giustizia si ferma sulla soglia del diritto interno e ammette che alla violazione del diritto Ue gli Stati possano porre rimedio in altro modo (di recente v. Corte giust. 21 dicembre 2023, causa C-396/22, Generalstaatsanwaltschaft Berlin; 28 giugno 2022, causa C-278/20, Commissione c. Spagna; 24 giugno 2019, causa C‑573/17, Popławski).

Per una recente messa a punto v. Corte cost. 22 dicembre 2022, n. 263, Foro it., 2023, I, 329; S. Pagliantini, Lexitor atto secondo: il. (prezioso) decalogo della Consulta sull’interpretazione euroconforme, in Giur. it., 2023, I, 279.

La strada sembra allora quella di una nuova rimessione alla Corte costituzionale per il potenziale contrasto dell’art. 5 d.l. n. 95 del 2012 con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alle norme interposte rappresentate dall’art. 7, paragrafo 2, della direttiva n. 2003/8 e dall’art. 31 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue: il divieto di monetizzazione fissato dalla norma nazionale sembra insuperabile in via ermeneutica.

E a chi volesse obiettare che, in realtà, un superamento in via interpretativa della lettera dell’art. 5 è già stato compiuto dalla giurisprudenza sopra citata, sarebbe agevole replicare che tale superamento ha trovato il preventivo e fondamentale avallo della Corte costituzionale, ossia del supremo custode dell’interpretazione secundum constitutionem, soprattutto quando siano in gioco diritti fondamentali consacrati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, lungo la linea che da Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 269 (Foro it., 2018, I, 26, e id., 2018, I, 405, con nota di E. Scoditti) conduce a Corte cost. 16 giugno 2022, n. 149 (id., Rep. 2022, voce Cosa giudicata penale, n. 12, nonché Giur. costit., 2022, 1554).

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